Saturday, September 5, 2009

DIO E' LA NOSTRA FELICITA'

INTRODUZIONE del libro “DIO E LA NOSTRA FELICITA’” di José M. Castillo
Il desiderio di felicità è l'istinto più profondo che qualsiasi persona porta inscritto nel più profondo del suo essere. Di modo che attentare contro la felicità di vivere (e tutto ciò che questo comporta) è l'aggressione più grave che si possa commettere contro l'essere umano, chiunque sia.
Un Dio ch'è percepito come un problema, come una difficoltà o in conflitto con la nostra felicità, per quanti argomenti divini e umani possiamo escogitare, è e sarà sempre un Dio inaccettabile e persino detestabile, sebbene molta gente non arrivi a dirlo.
Né tanto meno si può dire (secondo il mio parere) che l'ateismo di alcuni, l'agnosticismo di altri o l'indifferenza religiosa della maggior parte, si debba principalmente al fatto che tutti costoro non hanno risolto il problema religioso che si pone a qualsiasi persona quando vuole conciliare l'idea di un Dio infinitamente buono e infinitamente potente col dato della sofferenza, del dolore e di tante tremende contraddizioni come ve ne sono in questa vita.
Juan A. Estrada ha sicuramente tutta la ragione del mondo quando dice che <>. Poiché <>.
Poiché, se partiamo dall'idea di un Dio che è, al tempo stesso, infinitamente potente e infinitamente buono, come si può conciliare l'idea di un tale Dio col fatto di tanto male, tanta disgrazia e tanta sofferenza come ve n'è in questo mondo? La scappatoia che alcuni teologi trovano, di fronte a tale domanda, è di sostenere che Dio non "vuole"il male, ma lo "permette", per trarne un bene maggiore, come può essere la salvezza divina delle anime o la loro santificazione, giacché, secondo quanto assicurano alcuni esperti in cose religiose, la sofferenza santifica e salva.
E' (valga il paragone) come se un dentista dovesse estrarre un molare a un figlio a cui vuole molto bene. Naturalmente, deve fargli male. Ma il padre permette questo male, per ottenere cos... Visualizza altroì un bene maggiore, che è la cura del figlio.
A prima vista, tale ragionamento produce l'impressione di risolvere il problema. Però, in realtà, non risolve nulla.
Infatti, l'unica cosa che ciò dimostra è che il dentista non è onnipotente. Giacché, se fosse onnipotente, estrarrebbe il molare al figlio senza causargli il benché minimo fastidio. E se gli fa male, è chiaro che o non è onnipotente o non ama suo figlio così come lo dovrebbe amare.
<>.
(...)
Il problema sta, prima di tutto, nel fatto che il tema di Dio, così come, di fatto, comunemente è percepito, è una questione ch'è gestita tramite le istituzioni religiose.
Non solo. In più, spesso la gente ascolta o legge ciò che dicono o scrivono i rappresentanti delle religioni. Per comprendere ciò che qui vi voglio evidenziare, conviene tenere presente che le religioni appaiono alla popolazione inevitabilmente condizionate (in bene o in male) dai loro dirigenti.
Detto in altro modo, il problema sicuramente più complicato che molte persone colgono, riguardo a Dio, è che i gestori e i rappresentanti ufficiali del “religioso” sogliono essere uomini che, come tutti i mortali, hanno i loro limiti, i loro istinti e, a volte, le loro ambizioni. Questo è logico e, dato ch’è naturale, non dovrebbe porre difficoltà alcuna. Inoltre le persone che hanno credenze religiose ammettono, tra queste credenze, la convinzione che i capi della religione sono uomini che hanno ricevuto da Dio alcuni poteri soprannaturali che li rendono capaci di dirigere i fedeli, d’insegnare loro la verità rivelata dallo stesso Dio e di agire come mediatori tra la divinità e gli esseri umani.
Ma il problema non è così semplice. Poiché tutti sanno che i dirigenti religiosi, oltre a essere rappresentanti del divino e, in quanto tali, uomini investiti di poteri divini, sono anche esseri umani. E, pertanto, persone che subiscono le tentazioni proprie di qualsiasi essere umano.
Accade, però, che le tentazioni specifiche dei dirigenti religiosi abbiano una caratteristica decisiva precisamente in ciò che concerne il problema di Dio. Infatti, i responsabili della religione, essendo gestori e rappresentanti di Dio, vedono se stessi, e sono visti da coloro che hanno convinzioni religiose, come gli uomini che gestiscono e rappresentano, davanti agli altri il potere più alto, il potere più degno e anche il potere più assoluto, dal momento che si tratta nientemeno che del potere infinito di Dio.
Ebbene, dal momento in cui un uomo vede se stesso, ed è visto da altri, come l’essere privilegiato che nella vita rappresenta il potere più assoluto che si possa immaginare, è molto probabile che tale persona avverta la tentazione del potere in qualcuna delle sue manifestazioni. Per di più, dato che in questo caso è in gioco il potere supremo, si può dire che la tentazione degli uomini della religione è una tentazione sicuramente pericolosa. Perciò le istituzioni religiose appaiono, di fronte all’opinione pubblica, come istituzioni di potere.
Un potere che esercitano naturalmente nella misura in cui riesce possibile esercitare. Come potere ideologico, affinché la gente pensi secondo i canoni dei dogmi della religione. Come potere normativo, affinché i fedeli si sottomettano alle leggi che dettano la condotta da osservare. E anche come potere sociale (nella misura in cui ciò è possibile) per creare le condizioni più adeguate affinché i cittadini pensino e si comportino come conviene ai naturali interessi dell’istituzione. Da qui deriva che, molto spesso, ciò che più preoccupa i dirigenti religiosi sia l’obbedienza dei fedeli e forse non tanto la fedeltà di questi fedeli ai valori che la religione deve difendere, come sarebbe (nel casso dei cristiani) la fedeltà al Vangelo.
Qualsiasi istituzione religiosa sta in questo mondo, tra l’altro, per indicare ai fedeli le norme di condotta che devono osservare. Il che vuol dire che i rappresentanti di un’istituzione normativa non possono (né devono) apparire, di fronte alla gente, come persone ambiziose, orgogliose o prepotenti, giacché questo entrerebbe in contraddizione con la missione che devono svolgere. Tutto il contrario. Un <> deve mostrarsi davanti agli altri come persona umile, disinteressata e spoglia d’ogni orgoglio e d’ogni ambizione.
Da qui deriva che ai rappresentanti e gestori della religione non rimane altro che cercare ragioni solide e ben fondate teologicamente affinché il potere che esercitano e fanno sentire agli altri, sia sempre “garantito”, “legittimato” e “giustificato” come manifestazione del potere assoluto del Dio Altissimo. Solo così, gli <> possono arrivare in questa vita: nell’intimità delle coscienze, cioè in quel livello segreto e profondo dove ogni essere umano vede se stesso come una persona degna o, al contrario, come un deprecabile e un perduto. Detto in altri termini, solo in questo modo la religione può toccare e persino manipolare i sensi di colpa, che sono così efficaci per ottenere l’obbedienza dei fedeli e la solida persistenza della religione negli individui, nelle istituzioni e nella società in generale.
Orbene, per ottenere tali effetti nella coscienza della gente, i rappresentanti e i gestori del divino necessitano di un Dio onnipotente, la cui autorità non si possa mai mettere in discussione. E, come sempre dissero i buoni  <>, chi gioca col fuoco corre il rischio di bruciarsi. Se chi frequenta cattive compagnie presto o tardi finirà per cadere nella tentazione, chi si relaziona con gli altri come investito d’un potere intoccabile e indiscutibile, si relazionerà con la gente con un’inevitabile aria di superiorità che, oltre a infastidire molto, dirà a tutti (anche se non con la bocca) che il dio che rappresenta è alquanto insopportabile.
Ma il problema che qui si pone non è fondamentalmente una questione di etica. Il problema sta nel fatto che, se Dio è Dio, e l’uomo è uomo, la distanza tra Dio e l’uomo è infinita. Ne deriva che il potere di Dio e il giudizio di Dio devono essere sperimentati dall’essere umano, fragile e peccatore, come qualcosa che gli s’impone con timore e tremore. In modo che, per quanto diciamo che Dio è buono ed è Padre, sempre deve rimanere, come sottofondo intangibile, quella distanza infinita di fronte all’assoluto, i diritti intoccabili dell’<>, e la giustizia sempre incombente del Giudice supremo dei vivi e dei morti.
Non occorre essere un erudito in storia ecclesiastica per avere un’idea degli <>a cui si riferiva il papa nel documento della Commissione Teologica Internazionale, Memoria e riconciliazione: la chiesa e le colpe del passato. Di tutto ciò si è parlato mille volte ed è abbastanza noto. Tuttavia, mi sembra opportuno ricordare qui ciò che dice Hans Küng, a conclusione del suo lungo studio sull’essenza e la storia del cristianesimo: <>.
In ogni caso, ciò che è più negativo e più spiacevole è che le violenze, che si sono commesse, sono state fatte in nome di Dio. Questo è il dato più preoccupante, per due ragioni d’immediata comprensione. Innanzi tutto, perché un’istituzione o una persona che perseguita , tortura e uccide, <>, ci obbliga a chiederci: in realtà, tale istituzione o tale persona, in quale Dio crede? Oppure quale Dio ha in testa? In ogni caso, un tale Dio , torturatore e assassino, non può essere il Dio di cui ha parlato Gesù di Nazaret.
Ma ciò ch’è più preoccupante (perché molto grave) non è la deformazione di Dio. Quel ch’è peggio è che tale deformazione, cioè questo Dio (deforme e temibile) si utilizza come argomento irrefutabile per “legittimare” e “giustificare” il potere di un’istituzione o di alcune persone che, coscienti di ciò che fanno, si dedicano a provocare sofferenze indicibili a esseri innocenti.
Perché se Dio è il principio e il fondamento di tutto, la norma e il criterio per tutto, chi detiene tale criterio, in nome di Dio, si dedica ad aggredire gli altri? Da qui l’enorme pericolo che implicano tutti i fanatismi. Poiché, se “fanatismo” viene da fanum, e fanum è il “sacro”, chi agisce per fanatismo, in realtà ciò che fa lo fa <>, per la realtà più assoluta e intoccabile che possa esservi in questo mondo o oltre il mondo. Allora si comprende ciò che a molte persone risulta incomprensibile che le religioni (inclusa la cattolica) siano incorse in tante contraddizioni e abbiano commesso tanti soprusi. E che abbiano fatto tutto ciò con la coscienza tranquilla e anche con la coscienza che era così che si dovevano comportare.
“E’ la volontà di Dio”. Qui sta il pericolo che ha giustificato, e continua a giustificare, tante condotte aberranti. Com’è anche evidente che finché un tale Dio non viene cancellato dalla coscienza della gente e anche dalle idee popolari che circolano, su che cos’è Dio e com’è dio, le convinzioni religiose anzi, più concretamente, la fede in Dio si vedrà ogni giorno più assediata da difficoltà e problemi.
 Negli ultimi secoli, e soprattutto negli anni più recenti, di fatto molte persone non vedono alcuna relazione tra Dio e la felicità di vivere. E non manca gente che ha l’idea che Dio e la religione sono (per una qualche ragione) un impedimento per vivere felici. Il problema non sta nel fatto che le religioni si mettano ora a truccare la loro “mercanzia”, per renderla attraente in tempi di crisi religiosa. Non si tratta di presentare un Dio più attraente o di convenienza. Si tratta di comprendere che oggi la gente non sopporta un Dio nel cui nome e con la cui presunta autorità, si caricano pesanti fardelli sulle spalle della gente (Mt 23,4; Lc 11,46), si <> (Mc12,40; Lc 20,47), si disprezza il popolo semplice perché non capisce di religione e lo si considera maledetto (Gv 7,48), o si passa lontani dal povero disgraziato che si sta dissanguando sul ciglio della strada, perché il rappresentante di Dio possa arrivare pulito e puro al tempio (Lc 10,31-32).
Ogni anno, le convocazioni religiose, i pellegrinaggi i giubilei, le devozioni popolari e cose simili hanno più adesioni e convocano più gente. Avviene che ogni anno aumenta anche il numero di persone che armonizzano perfettamente (senza sapere come) una religiosità senza Dio. Questo dato è interessante e s’impone all’attenzione. Vi è sempre più gente che va alle processioni e visita templi e santuari, ma in maniera tale che il fatto di Dio le interessa abbastanza poco, per non dire nulla. Così stanno oggi le cose.
Ebbene, se effettivamente è così, sembra che la cosa più urgente, per la religione e per la teologia, in questa situazione, sia affrontare queste due domande: 1) Com’è il Dio che ci ha rivelato Gesù? 2) Coincide il Dio di Gesù con il Dio che ci si suole presentare nella predicazione ecclesiastica e nell’educazione religiosa, che, spesso, la Chiesa propone?
E’ vero che noi credenti sappiamo che sempre possiamo contare sulla presenza e sull’azione dello Spirito di Dio. Ma è altrettanto vero che possiamo essere sordi alle voci dello Spirito. E, soprattutto, mai dovremmo dimenticare che la fedeltà allo Spirito si deve dimostrare nell’ascolto attento e docile di ciò che Gesù ci ha insegnato su chi è Dio e com’è Dio.